Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Fratelli di latte olio su tela, cm 65x88 firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1879 a tergo cartiglio Galleria Dedalo, Milano Provenienza: Coll. Rossi, Milano; coll. privata, Napoli Esposizioni: Milano, 1933-1934 Bibliografia: Alcune opere scelte di FilippoPalizzi, Galleria Dedalo Milano, Ed. Rizzoli & C. MI 1933, Tav III, n. Cat. 31 ; A. Schettini, La Pittura napoletana dell'Ottocento E.D.A.R.T. Napoli 1967 vol I pag. 159 n° cat. 87; Catalogo Bolaffi della Pittura italiana dell'Ottocento n°4, G. Bolaffi Editore TO 1972, pag. 310 in b/n Di Filippo Palizzi sono generalmente ricordate nell’immaginario comune le suggestive rappresentazioni di grandi ambienti naturali aperti, tipicamente popolati più da figure animali che umane: questi tipi di raffigurazioni in effetti meglio esemplificano la grande rivoluzione di cui il Palizzi si fece promotore (insieme al Morelli, sebbene seguendo filoni non sempre vicini fra loro) nel mondo artistico dell’Italia meridionale (a partire da Napoli) nel corso della seconda metà del diciannovesimo secolo. Non mancarono tuttavia nella produzione dell’autore ritratti (ed autoritratti) di grande profondità psicologica, così come alcuni (più rari) esempi di pittura storica. L’opera proposta in effetti riassume felicemente almeno i principali spunti tematici che caratterizzarono la produzione palizziana. La data inscritta dallo stesso autore riporta del resto al periodo della sua piena maturità artistica, quando erano già compiuti i molti viaggi in Italia (a Firenze Filippo fu celebrato dai macchiaioli come loro padre spirituale) e all’estero (Francia, Olanda, Belgio, Austria nonché il lungo tragitto verso Est al seguito del principe Maronsi)e quando alla conclamata fama del Palizzi (giunta sia in Russia che nelle Americhe) già andavano aggiungendosi i molteplici incarichi istituzionali. L’occasionale richiesta del committente (fra i tanti, pure illustri, che si rivolsero all’artista) diviene allora ricettacolo delle abilità e delle tecniche maturate nel corso di una carriera giunta al proprio apice, e vi vengono coniugate suggestioni certo non fortuite (cioè manifestatesi agli occhi dell’autore per puro caso, come spesso accadeva) ma non per questo meno vere; a tal proposito vanno segnalate due opere oggi all’Accademia di Belle Arti di Napoli (tramite donazione dello stesso Filippo) che furono con ogni evidenza coeve o comunque cronologicamente poco distanti da quella in esame, se con quest’ultima condividono una il soggetto della panchina (con tutti gli accessori su di essa posati), l’altra l’abitazione neoclassica sullo sfondo e parte della villa che la circondava. Tanto l’ambientazione, comunque, che i tre animali rappresentati (soggetti che per primo il Palizzi elevò ad una dignità artistica pari a quella delle figure umane) con il tenero e palpitante infante al centro sono espressioni della singolare concezione di “macchia” che l’autore sviluppò come obiettivo della propria poetica, poiché «quello che bisogna cercare ora nella pittura moderna sono le finezze e la totalità», da intendersi come una impressione di insieme che non rinunciasse ad alcune sottigliezze percettive (anzi proprio completandosi con esse) specialmente nella resa dei molteplici effetti luministici.
Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Fratelli di latte olio su tela, cm 65x88 firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1879 a tergo cartiglio Galleria Dedalo, Milano Provenienza: Coll. Rossi, Milano; coll. privata, Napoli Esposizioni: Milano, 1933-1934 Bibliografia: Alcune opere scelte di FilippoPalizzi, Galleria Dedalo Milano, Ed. Rizzoli & C. MI 1933, Tav III, n. Cat. 31 ; A. Schettini, La Pittura napoletana dell'Ottocento E.D.A.R.T. Napoli 1967 vol I pag. 159 n° cat. 87; Catalogo Bolaffi della Pittura italiana dell'Ottocento n°4, G. Bolaffi Editore TO 1972, pag. 310 in b/n Di Filippo Palizzi sono generalmente ricordate nell’immaginario comune le suggestive rappresentazioni di grandi ambienti naturali aperti, tipicamente popolati più da figure animali che umane: questi tipi di raffigurazioni in effetti meglio esemplificano la grande rivoluzione di cui il Palizzi si fece promotore (insieme al Morelli, sebbene seguendo filoni non sempre vicini fra loro) nel mondo artistico dell’Italia meridionale (a partire da Napoli) nel corso della seconda metà del diciannovesimo secolo. Non mancarono tuttavia nella produzione dell’autore ritratti (ed autoritratti) di grande profondità psicologica, così come alcuni (più rari) esempi di pittura storica. L’opera proposta in effetti riassume felicemente almeno i principali spunti tematici che caratterizzarono la produzione palizziana. La data inscritta dallo stesso autore riporta del resto al periodo della sua piena maturità artistica, quando erano già compiuti i molti viaggi in Italia (a Firenze Filippo fu celebrato dai macchiaioli come loro padre spirituale) e all’estero (Francia, Olanda, Belgio, Austria nonché il lungo tragitto verso Est al seguito del principe Maronsi)e quando alla conclamata fama del Palizzi (giunta sia in Russia che nelle Americhe) già andavano aggiungendosi i molteplici incarichi istituzionali. L’occasionale richiesta del committente (fra i tanti, pure illustri, che si rivolsero all’artista) diviene allora ricettacolo delle abilità e delle tecniche maturate nel corso di una carriera giunta al proprio apice, e vi vengono coniugate suggestioni certo non fortuite (cioè manifestatesi agli occhi dell’autore per puro caso, come spesso accadeva) ma non per questo meno vere; a tal proposito vanno segnalate due opere oggi all’Accademia di Belle Arti di Napoli (tramite donazione dello stesso Filippo) che furono con ogni evidenza coeve o comunque cronologicamente poco distanti da quella in esame, se con quest’ultima condividono una il soggetto della panchina (con tutti gli accessori su di essa posati), l’altra l’abitazione neoclassica sullo sfondo e parte della villa che la circondava. Tanto l’ambientazione, comunque, che i tre animali rappresentati (soggetti che per primo il Palizzi elevò ad una dignità artistica pari a quella delle figure umane) con il tenero e palpitante infante al centro sono espressioni della singolare concezione di “macchia” che l’autore sviluppò come obiettivo della propria poetica, poiché «quello che bisogna cercare ora nella pittura moderna sono le finezze e la totalità», da intendersi come una impressione di insieme che non rinunciasse ad alcune sottigliezze percettive (anzi proprio completandosi con esse) specialmente nella resa dei molteplici effetti luministici.
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